20 Giugno 2018

Crimini al microscopio

Qual è il rapporto tra medicina, criminologia e intrattenimento? Quanto spesso è il confine tra investigatore e assassino? Viaggio alle radici dell'etica e della colpa sullo schermo, tra misteri, ricerche e autopsie.
Sulla scena del delitto...
Sulla scena del delitto...
Caspar Benson / GETTY IMAGES

Medici legali e criminologi riempiono gli schermi del cinema e della televisione. CSI, Rizzoli & Isles, Rookie Blue, NCIS, Body of Proof, Person of Interest sono i titoli dei serial TV più famosi. Ci sono persino reti televisive, come «Top Crime» (Mediaset) dedicate esclusivamente al giallo, all’investigazione, al mistery, al noir. Che cosa si nasconde dietro la passione per le ricerche, le sale autoptiche, le estenuanti investigazioni? La risposta è morale: c’è in gioco lo spavento di fronte al male e il senso d’impotenza, suscitato dal riaffiorare ciclico di una violenza assurda. Quale è la radice del sadismo? Perché il fratello si trasforma in un torturatore e l’alleato in un perfido serpente? Che cosa spinge al femminicidio?

Il cinema cerca un esperto, in grado di studiare il crimine, di prevederlo e contrastarlo. Di capire il mostro e di curarlo, addirittura guarirlo, redimerlo. Ma sia la scienza che la narrazione, a loro volta, non sono innocenti. Ciò che vedono è solo una parte della verità; un’altra parte è nascosta, celata, rimossa. L’obiettività, che la medicina vanta, è frutto di un delicato esperimento artificiale, in cui non c’è niente di spontaneo. Il distacco oggettivo, che dovrebbe produrre una diagnosi raffinata, è un’illusione: per comprendere il criminale, occorre identificarsi con lui, esplorare i suoi perversi desideri, decifrare il violento messaggio d’aiuto, che egli scrive col sangue. 

Questo è il primo dilemma bioetico: a chi promette fedeltà un criminologo? All’indagato, con cui egli ha colloqui riservati? Oppure al giudice, che gli ha affidato il compito di perito? Mestiere difficile! Bisogna stare davanti al paziente (rinunciando a curarlo) e assieme scivolare dalla sua parte, per sintonizzarsi con i suoi conflitti irrisolti, i deficit affettivi, le fantasie cruente, al fine di smascherarli. Devi entrare spiritualmente in un’anima nera, attraverso una finzione narrativa, che però ti sporca inavvertitamente, ti lascia una macchia, ti procura una cicatrice che andrà sanata. 

L’altra questione morale riguarda l’estensione della libertà. Ogni investigatore oscilla tra due ipotesi estreme. Quella assolutoria, secondo cui la grave malattia mentale conduce inesorabilmente a commettere atti nefandi, spezza il freno del rimorso, accende un’aggressività selvaggia. Oppure l’ipotesi colpevolista: chi fa il male, da Caino in poi, l’ha deciso; se non l’ha deciso ora (ora che è egli folle), questa scelta è stata fatta prima, molto prima, quando egli, poco alla volta, si è lasciato scivolare nel gorgo dell’invidia e della cattiveria. Comunque l’imputato è colpevole e deve risponderne. Ancora attuale è uno storico film in bianco e nero, girato da Anatole Litvak nel 1938, con Humphrey Bogart nella parte del cattivo. S’intitola Il sapore del delitto.

Un neurologo, lo stupefacente dottor Clitterhouse, socialmente benestante, assume il ruolo del criminale per investigare sulle condizioni psico-fisiche dei delinquenti, inseguiti dalla polizia. Conserva l’incognito, per osservare in diretta le condizioni cliniche dei soggetti devianti, sottoporli a esami di laboratorio e redigere un rapporto scientifico. Il gioco però si fa rischioso. Uno psicopatico lo detesta, lo scopre e intende ucciderlo. Clitterhouse si è lasciato trasportare dalla frenesia del sapere e ha provato l’ebbrezza del delitto. Decide di fermare l’indagine, ma il suo cinico avversario lo ricatta: «lei deve ora lavorare per me». Si apre un dilemma: è lecito eliminare un criminale, per legittima difesa?

Memorabile la sentenza dei giurati: il medico imputato non è responsabile di ciò che ha fatto, perchè è disturbato mentalmente. Infatti, in un processo come questo, «Solo un pazzo si sarebbe dichiarato sano!». Litvak colora d’ironia una psicologia presuntuosa che vorrebbe studiare il gangster a distanza di sicurezza e poi ricondurlo alla normalità. Il dramma criminale ricorda allo spettatore che la separazione tra buoni e cattivi è difficile, a volte altamente improbabile. L’oggetto-crimine e il soggetto che lo studia professionalmente sono legati l’uno all’altro. E ogni racconto poliziesco intreccia il destino di un reo, le nevrosi dell’autore e la curiosità del lettore. Il criminologo somiglia allo spettatore cinematografico, che per guadagnare acutezza di visione, deve distanziarsi dalla vita, fare il guardone, peccare d’omissione, rimandare o delegare le decisioni personali.

Data di aggiornamento: 20 Giugno 2018
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