Costruttori di umanità

Una nuova «geografia del bene» sta rivoltando l’Italia. A compierla un esercito pacifico di uomini e donne che il presidente della Repubblica chiama «costruttori di umanità».

Paesi che ne aiutano altri. Un’intera città che adotta i figli di una donna uccisa dal marito. Gente del Sud che sale al Nord per ripulire i boschi distrutti dal maltempo e gente del Nord che scende al Sud per fare lo stesso. Famiglie che, nella notte, escono dal caldo delle loro case e salvano vite dalle acque. È una nuova «geografia del bene» quella che sta rivoltando l’Italia. A compierla un «esercito» pacifico di uomini e donne che il presidente della Repubblica chiama «costruttori di umanità». Sono una realtà, non qualcosa sulla carta. Un’azione, non un presupposto. Fanno, e basta. Sotto traccia, senza clamore. In loro, il sogno «di un Paese da costruire, di un’Italia perennemente da fare», come scriveva Mario Luzi. Piace pensare che questo Paese «in corso d’opera» sia quello più vero, sia il nostro futuro.

Alghero. La città che «adotta»

«Alghero non vi abbandonerà». La promessa era arrivata poche ore dopo l’assassinio di Michela Fiori, 40 anni. A ucciderla, nella sua casa dov’erano già pronti i regali di Natale per i figli di 8 e 12 anni, il marito che ora è in carcere. La città non ha aspettato. A passare dalle parole ai fatti il sindaco Mario Bruno. «Un dramma che mai vorrei capitasse in nessun luogo del mondo, tanto meno nella mia città – afferma –. Il mio pensiero è andato subito ai due figli, vittime senza colpa. Avevamo l’obbligo, tutti insieme, di tutelarli, custodirli, garantire loro ciò che avevano fatto fino a quel momento: studiare, giocare, crescere. Loro sono anche figli di questa città». Così il Comune ha approvato, in pochi giorni, una delibera con cui la città ha «adottato» i figli di Michela. È la prima volta in Italia. L’«adozione di cittadinanza», voluta da Alghero, sta facendo scuola. La «buona pratica» sta «contagiando» centinaia di Comuni in tutta Italia. A richiedere la delibera anche l’Anci nazionale. «È già stata approvata a Iglesias (SU), dove il sindaco ha proposto di “adottare” i tre figli di un’altra donna vittima di femminicidio – prosegue Bruno –. E poi a Mamoiada (NU), dove si vuole istituire un fondo per una situazione diversa, ma di analogo bisogno».

Dolomiti. Montagne di solidarietà

Si prende cura degli alberi come fossero crea­ture. Dalla corteccia ferita ne raccoglie la resina fino all’ultima goccia. «Sai, è come se le gocce fossero l’urlo, il pianto, le lacrime di questi boschi». Cristina Panozzo abita a Treschè Conca, sull’Altopiano di Asiago. La furia rabbiosa del vento, soffiato fino ai 190 km tra il 31 ottobre e il 2 novembre scorsi, ha scoperchiato case, spazzato via fienili. Le strade sono franate come sabbia. Oggi il paesaggio delle Dolomiti, patrimonio dell’Unesco, è mutato. In tutto il Veneto, 100 i chilometri di strade distrutte, 169 mila le utenze rimaste senza energia elettrica per giorni. E poi gli alberi. Quattordici milioni quelli caduti, dall’Agordino al Cansiglio, fino al Cadore. Migliaia gli ettari di montagna rasa al suolo in un’area di 5 mila chilometri quadrati, dal Monte Grappa alla Val di Fassa, compresa tra Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia fino al confine con l’Austria. In Val di Fiemme, spazzati via gli abeti rossi, utilizzati per violini di pregio; nella foresta del Cansiglio, i faggi «da remi», materia prima sfruttata dalla Serenissima per la flotta; 300 mila quelli caduti sull’Altopiano di Asiago. Tra questi i boschi, abitati e raccontati da Rigoni Stern, gli alberi di Cristina e di tutte le donne che, come lei, da queste parti mandano avanti fattorie, aziende agricole e allevamenti. Contadine, malgare, allevatrici che si sono strette intorno ai loro boschi lanciando la campagna Coldiretti «Adotta un bosco». Le prime ad adottare, proprio loro: «Ogni piantumazione sarà una festa», assicurano. A dare il via all’iniziativa, proprio Cristina. 

Torre Melissa. Il piccolo porto che accoglie

È l’11 gennaio scorso, 4 del mattino. Gli abitanti di Torre Melissa, piccola comunità della Calabria, che volge lo sguardo sul mar Jonio, dormono tranquilli. Fuori fa freddo e piove. Le onde del mare si alzano e si abbassano come enormi altalene. Una barca, con cinquantuno curdi a bordo, viene spinta a riva, si piega su un fianco e si rovescia. A bordo molti uomini, ma anche sei donne e quattro bambini, tra i quali un neonato. L’imbarcazione rimane semisommersa e non dà possibilità di fuga. I naufraghi si disperano: in pochi sanno nuotare. Il sogno di una «terra promessa» rischia di spegnersi in queste gelide acque. Le grida si alzano nell’aria e riecheggiano sul breve tratto del litorale. Gli abitanti  le odono sempre più forti: intuiscono che qualcosa di grave è successo in mare. Le luci delle case si accendono una dopo l’altra. Uomini e donne si vestono in fretta e si dirigono verso la spiaggia. Intravvedono l’imbarcazione, si danno da fare in tutti i modi per portare in salvo i naufraghi.  Roberto, pizzaio­lo, lavora nel vicino hotel ed è il primo ad arrivare sul posto:  «Le urla erano strazianti – racconta –. Un lamento continuo». Intuisce il dramma che si sta per consumare, prende la barca dell’hotel e comincia l’operazione di salvataggio. Altri concittadini lo aiutano, in una spola senza sosta. Si toglie pure la giacca per proteggere le persone ormai seminude.  C’è chi accende la propria auto, aziona il riscaldamento e ci fa salire le persone. I titolari del vicino hotel aprono le  porte ai naufraghi: recuperano stufe, coperte, asciugamani, viveri. Offrono bevande calde, biscotti. Altri abitanti fanno altrettanto nelle loro case: raccolgono scarpe, vestiario, pigiami, biancheria  per le persone arrivate dal mare. Torre Melissa è diventata, insieme a Riace, Montesilvano, Crotone, Reggio Calabria, simbolo di un’Italia che non si gira dall’altra parte. «Ho visto miei concittadini togliersi il giubbotto per darlo alle persone bagnate e infreddolite – racconta commosso il sindaco –. Sono orgoglioso di loro. Hanno dimostrato una grande capacità di esternare il bene e di far trionfare la solidarietà». (C.Z.)

Torino. Il quartiere generativo

In via Morgari 14, a Torino, un tempo c’erano i bagni pubblici, oggi c’è una delle esperienze di generatività sociale più interessanti d’Italia: la Casa del quartiere di San Salvario. Dentro è tutto un pullulare d’iniziative: da «Fuori orario» lo spazio per i ragazzi delle medie, alla campagna ecologica «Puliamo San Salvario», dal corso di ballo per gli anziani allo sportello per i rifugiati. Completano il quadro mostre, corsi di ogni tipo, musica, feste di quartiere. Del vecchio uso del luogo è rimasta traccia solo nel nome della caffetteria «Bagni Municipali», punto di ritrovo e sede di eventi culturali. «Qui non solo vieni per partecipare a un’attività − spiega Roberto Arnaudo, direttore dell’Agenzia per lo sviluppo locale di San Salvario – ma anche semplicemente per stare insieme, condividere. È uno spazio comune, un luogo aperto a tutti, dalle 9.00 alle 24.00, diverso dalla propria casa ma anche dagli spazi commerciali e di lavoro. Una vera e propria piazza». Ma non è sempre stato così. Il quartiere per anni è diventato il dormitorio degli immigrati che sbarcavano in città. «Qui c’era paura e si organizzavano le ronde, mentre i giornali parlavano di Bronx». Tuttavia le braci ardevano sotto la cenere: «A partire dagli anni ’90 siamo stati tra quelli che cercavano risposte più inclusive. Abbiamo iniziato attività di promozione culturale e sociale in accordo con la città. Da quel lavoro è nata l’esigenza di avere una struttura polivalente». Come a dire che i muri da soli non servono. (G.C.)

L’articolo completo, con le tante storie e le testimonianze dell'Italia del bene, è sul «Messaggero di sant’Antonio» di aprile 2019 e nella corrispondente versione digitale.

Data di aggiornamento: 24 Aprile 2019
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