26 Novembre 2018

Confessioni a tavolino

In un bar romano un misterioso avventore dispensa consigli a dieci persone in cerca di risposte. Il risultato è «The Place» (Italia 2017), un intreccio di storie, ma anche un’acuta riflessione sul senso della felicità.
Una scena tratta da «The Place» di Paolo Genovese.
Una scena tratta da «The Place» di Paolo Genovese.
Maria Marin

Chi è lo sconosciuto avventore, che siede in permanenza nel bar romano «The Place»? Sappiamo di lui solo ciò che fa, ossia come conversa con chi gli chiede un incontro. Sappiamo che non ama parlare di sé, che difende la propria riservatezza, ma non si sottrae a quanti gli sottopongono un problema. Ma lui chi è? La pellicola ripropone e condensa fedelmente la serie TV americana (creata da Christopher Kubasik e visibile in Italia su Netflix) dal titolo The Booth at the End. Lo spettatore è costretto a sospendere le definizioni (e, a maggior ragione, il giudizio sulla vicenda) prima di aver assistito ai contatti, brevi e frammentari, di quell’uomo con dieci dei suoi «clienti», le cui storie (che noi non vediamo, ma sentiamo raccontare) si incrociano imprevedibilmente, grazie agli accordi siglati a quel tavolo riservato, sempre il medesimo, sistemato in fondo a un locale pubblico, che è trasparente all’esterno. Le vicende private, dicevamo, si annodano tra loro, per il bene o per il male. Ne può venire gioia o disperazione, vitalità o rassegnazione dolente.

Si va da quell’uomo per passaparola, spinti da un problema, meglio da un desiderio: diventare più belli, ritrovare Dio, guadagnare denaro, salvare un proprio caro da una malattia infausta… Lui è sempre seduto lì, giorno e notte, assonnato ma attento, come una civetta filosofica appollaiata sul ramo preferito. Ascoltata la richiesta del cliente, lui ci pensa un po’ sopra, serio, imperturbabile e malinconico, distaccato, sfuggente ma non cinico. A volte interroga: «Che tipo di felicità cerchi?». Poi consulta l’agenda e, con un guizzo negli occhi, commenta: «È possibile, ma spetta a te decidere». In quegli occhi c’è il piacere di aiutare e la fatica d’immergersi in situazioni estreme. Chi lo ha designato funzionario dei destini altrui?

Il protagonista non presenta credenziali professionali, conferma che è lì proprio per capire e offrire suggerimenti, ma non dà valutazioni morali in merito alle richieste, dice solo se si possono realizzare e pone come condizione lo svolgimento di un compito (rubare, restare incinta, difendere una bambina dai pericoli, uccidere…). L’accordo non si può negoziare né rivedere: prendere o lasciare. L’uomo senza nome chiede un impegno personale, nella forma di un incarico a volte ordinario, a volte bizzarro, a volte tremendamente esigente e moralmente controverso. Lui assicura che la promessa sarà mantenuta e il desiderio verrà esaudito, ma non dice che cosa succederà se il patto non viene onorato dal cliente, il quale è libero di accettare o di ritrarsi in qualsiasi momento. «Vuole andare ancora avanti? Non è obbligato».

Assistiamo così a un esame di coscienza. I clienti imparano che cosa veramente vogliono, proprio mentre riorganizzano la propria vita per assolvere gli strani compiti ricevuti. Così facendo, essi scoprono ciò che sta loro a cuore e sono costretti a ripensare la propria esistenza. Il mezzo illumina la qualità del fine; il comando, la norma rivela sentimenti inconfessati, che alimentavano l’invocazione di partenza. Si tratta di un vero e proprio esperimento etico. L’uomo vuol conoscere i dettagli, che annota meticolosamente sul suo libro di pelle scura. I dettagli del progetto, i dettagli dell’esecuzione. «Che cosa hai sentito dentro? Ti è costato? Sei infelice?». I vissuti sono molto importanti: per capire se un comportamento è giusto e coerente per la nostra vita, dobbiamo interrogare e interpretare gli affetti che ci sorprendono.

L’inquadratura è quieta, statica, ripetitiva, prevedibile. Non capita niente, salvo bersi un caffè, sgranocchiare uno snack, farsi una birra. Non c’è panoramica esterna durante i colloqui, e non c’è sviluppo altrove. L’altrove non c’è. Siamo tra corpi che sussurrano desideri, colpe e promesse; siamo nel tempo in cui la mente medita il da farsi, consulta il passato, immagina futuri alternativi. Siamo al cinema, assistiamo a una proiezione riservata solo a noi, ma senza schermo, in compagnia semplicemente di uno sceneggiatore al lavoro, che ipotizza trame insolite per il personaggio che abbiamo scelto di diventare.

Data di aggiornamento: 03 Dicembre 2018
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