20 Aprile 2017

Ciò che siamo ce lo dice la Pasqua

Ciò che siamo l'abbiamo capito nel giorno di Pasqua, «partoriti» dal grembo di quella notte santa che sola sa che cosa sia davvero successo, e ne serba per sempre il mistero: redenti e salvati dall’amore «esagerato» del Signore.
a ben guardare la nostra fragilità è un tesoro

©JeSuisL’Autre

Ciò che siamo a volte presumiamo di saperlo. Altre volte ci aspettiamo che siano gli altri a rivelarcelo. Talvolta, anzi, paghiamo pure o siamo disponibili a mettere in stand by i nostri valori per sentircelo sussurrare a un orecchio. Oppure andiamo a chiederlo alla carta d’identità, all’estratto conto bancario, alla quantità di contatti e like sui social, al numero di cavalli che scalpitano nel motore delle nostre auto o alla riconoscibilità immediata dell’etichetta dell’abito che indossiamo. Nel peggiore dei casi, al fondo di un bicchiere di superalcolico o alla fine di una storia strampalata e partita col piede sbagliato. Talmente è imprescindibile per noi fare i conti con quel «cumulo nebuloso di speranza e di memoria / al quale avrò dato il mio nome» (Jacques Réda).

A volte ci pare che sia proprio la fame a tenerci in piedi, di senso, di significato. Lavoriamo, sudiamo, facciamo l’amore, ci indebitiamo per una settimana bianca, collezioniamo tappi, e solo per trapanare con piccoli fori il silenzio che ci gela l’anima. Perché abbiamo la sensazione che i nomi, compreso il nostro, siano scollati dalle cose che intendono dire? Intuiamo il mistero che circola in mezzo, come vento che si insinua tra le fessure, perciò dappertutto non è il posto dove cercare risposta. Questa davvero è «altrove», e da là, gratuita, impensata, misericordiosa, immeritata, ci raggiunge. A rivelarci la nostra vera identità.

Ciò che siamo nasce il giorno di Pasqua, «partoriti» dal grembo di quella notte santa che sola sa che cosa sia davvero successo, e ne serba per sempre il mistero: redenti e salvati dall’amore «esagerato» del Signore! Ciò che siamo dobbiamo andare a cercarcelo in quella mattina, assieme alle donne che si recano al sepolcro e lo trovano inaspettatamente vuoto: il nostro dolore che va inesorabilmente a infrangersi contro quella pietra rimossa dalla tomba! Ma anche le nostre convinzioni e attese che devono essere ricalcolate. Ciò che siamo sta tutto nelle corse dei discepoli tra il cenacolo e la tomba vuota: paura, meraviglia, stupore, gioia, fraternità ritrovata, annuncio! È la vita che si rimette in moto, dopo la fermata forzata sul Golgota. Ciò che siamo è tutto nei momenti successivi, passato lo sconcerto iniziale, quando scopriamo che è proprio lui, è risorto: sono i nostri sogni che riprendono a scorrere, la nostra passione che si infiamma nuovamente! È la voglia di vivere, e di vivere bene!

Ma anche ciò che saremo viene tutto da lì, da quel lenzuolo adagiato in disparte, vuoto, inutile, segno di tutti i «sudari» della nostra vita da cui il Risorto ci spoglia: la capacità di amare a nostra volta, il donarci la vita gli uni gli altri, saperci perdonare reciprocamente, non giudicarci, accoglierci per quello che siamo, rivitalizzare l’aria ammorbata e funerea che qualche volta ci circonda, contribuire a costruire la nostra comunità. Insomma, il nostro cuore che comincia a dilatarsi alla misura del cuore di Dio!

Ciò che siamo è… niente! Come niente rimane da vedere in quella tomba vuota, nessuna istantanea, nessuna reliquia della resurrezione a uso e consumo della nostra povera fede. Giusto il tempo di una manciata di battute con un paio di angeli, un giardiniere che poi non è un giardiniere ma si scoprirà essere niente di meno che il Risorto stesso, e siamo spediti via. Però forse è proprio un giardiniere, e noi viviamo tutti in un nuovo giardino divino! E siamo da allora più che mai faccenda sua: il nostro vuoto è spazio accogliente, rigenerante, misericordioso. Ostensorio dell’amore di Dio! Altro non ci interessa, e con nient’altro (foss’anche sacro…) siamo disponibili a confondere o barattare questo.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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