In barba alla disabilità

Un bel cortometraggio racconta istanti di vita quotidiana di un padre e un figlio con la sindrome di Down. Un percorso a ostacoli, tra ironia e complicità, dove la capacità di reinventare se stessi e il proprio stare insieme è responsabilità alla pari.
26 Settembre 2014 | di

Il passaggio dall’infanzia alla vita adulta è segnato, per alcuni di noi, da un piccolissimo rito che ogni papà ama trasmettere al proprio figlio, in genere davanti allo specchio. Sto parlando, ovviamente, del primo momento dedicato al taglio della barba. Un momento semplice ma molto significativo. Una soglia delicata, che per i maschi si fa segno tangibile e visibile del limite tra uomo e bambino.

Simbolo di maturità, di saggezza e, più in generale, di solidità e forza, la barba rappresenta nel nostro immaginario, come nella nostra iconografia, l’uomo adulto e tutto d’un pezzo.

Una nota pubblicità recita «per l’uomo che non deve chiedere mai». Uno slogan entrato ormai nell’immaginario collettivo, che ovviamente parla da sé. E una persona con disabilità, che posto occupa nell’immaginario collettivo? In genere quella di qualcuno che deve chiedere sempre… Farsi la barba è, dunque, segno di crescita e maturità ma anche uno status, tra mascolinità e senso d’indipendenza.
 
Perché parlo così intensamente di tutto questo? A ispirarmi è stato un breve video, comparso sul web qualche tempo fa, che affronta la questione da un punto di vista molto affascinante.

Sto parlando di Mon papa, cortometraggio della Fondazione francese Jérôme Lejeune che racconta alcuni istanti e passaggi di vita quotidiana tra un padre e un figlio adolescente, per l’appunto con sindrome di Down. In questo video il rapporto tra i due viene fotografato in diverse fasi della crescita attraverso gli occhi del figlio, tra ironia e complicità. Un percorso a ostacoli, pieno di esilaranti pasticci, dove la capacità di reinventare se stessi e il proprio stare insieme è responsabilità alla pari.

Nella mia vita lavorativa ho incontrato molti padri di ragazzi e ragazze. E la difficoltà più grande è sempre stata quella di comunicare loro come la disabilità del figlio potesse diventare un punto di forza e di come quello stesso figlio potesse trasformarsi in punto di riferimento. Un vero e proprio ribaltamento dei ruoli, insomma, come quello di Mon papa, capace di rimettere in discussione dalle radici il vocabolario, a partire dalla parola «uomo», per esempio.
 
Vorrei citare a questo proposito una lettera, tratta dal mio libro Una vita imprudente (Erickson editore), ricevuta allora da un caro amico tuttora presente, Marco Espa, papà di Chiara da diversi anni e da sempre impegnato nella difesa dei diritti e dei doveri delle persone con disabilità: «Chiara può solo essere… – scrive Marco – e lei è totalmente espressa nella comunità che la circonda, se si relaziona a lei… noi siamo lei e lei è noi. Questo può accadere in casa, a scuola, in un quartiere, insomma nelle relazioni d’amore, dando a questo termine un valore pienamente laico (e per me quindi anche cristiano). Non è nichilismo… Ti pongo alcuni interrogativi azzardati: è questo il vero modello di Uomo? Chi cerca il nulla per fare spazio all’altro diverso da sé è il vero Uomo?».

Essere uomini, padri, figli… limiti, sofferenza, abbracci… E voi cosa mi raccontate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017