Abbiamo tutti una montagna da scalare

Un incidente stradale. E l’esistenza di Luca Panichi cambia all'improvviso. Il sogno di diventare campione di ciclismo sfuma, e si tramuta nella determinazione a tagliare i nuovi traguardi che la vita gli impone.
17 Maggio 2016 | di

Luca Panichi, perugino di Magione, sognava la strada, il Giro d’Italia e il Tour de France. A 8 anni era già in sella. Lui che viveva, ma non venerava il suo sport: il ciclismo. Proprio lui che al liceo si portava da casa spaghetti, olio e parmigiano, da consumare durante la lezione perché una volta suonata la campanella c’era l’allenamento. Un sogno, quello del giovane Luca, infrantosi durante la gara a cronometro d’apertura del Giro dell’Umbria, la «sua» Umbria.

Era il 18 luglio 1994. La maglia portava l’effigie della Penna Fioriti: una delle squadre più forti della categoria dilettanti, l’anticamera del professionismo. La salita scorreva veloce sotto i tubolari, in direzione San Martino al Cimino (VT). Luca era solo. Una gara a cronometro, contro il tempo, contro se stessi. E poi l’incontro con il destino: una macchina lanciata in senso opposto. E l’inevitabile impatto, violentissimo. La diagnosi? Spietata: frattura della seconda vertebra cervicale, lesione midollare incompleta all’altezza della sesta e della settima vertebra cervicale.

La vita strappata alla morte sul colpo, solo grazie alla bravura dei soccorritori e del personale medico dell’ospedale di Perugia, ma con un conto pesante da pagare: danno neurologico e conseguente immobilità delle gambe, dei muscoli del tronco e delle mani. Una vita costretta sulla carrozzina tra i paradigmi che cambiano e gli stereotipi della gente. Tutto sbagliato, tutto da rifare, dopo diciassette anni in compagnia della sua bicicletta. E invece…  La passione per il pedale «Da bambino – racconta Panichi – ero pignolo e attento al rispetto delle regole quando giocavo, ma allo stesso tempo ero una persona animata dalla voglia di conoscere ed esplorare il mondo attorno a sé, la diversità delle persone. Con il ciclismo ho cominciato all’età di 8 anni per via della passione che si respirava in famiglia. Mio zio correva, papà Valter tifava Moser. Uno dei ricordi più belli che conservo di lui è legato alla Milano-Sanremo, vinta dal campione trentino nel 1984. Eravamo in ginocchio davanti alla televisione in trepidante attesa mentre Francesco era in fuga, da solo, verso il traguardo. Lo sport e la famiglia hanno contribuito a formare il mio carattere. Il ciclismo mi ha messo in relazione ogni giorno con persone diverse, e quindi, fin da subito, posso dire di essermi allenato anche per diventare cittadino del mondo. La mia famiglia non metteva mai il risultato al primo posto, ma la gioia. Ho avuto l’occasione di vivere la passione per lo sport al meglio, condividendola con altre persone. Più di qualche volta, al ritorno dalle gare, ci si fermava a festeggiare alle sagre, a prescindere dall’ordine d’arrivo». Famiglia, ciclismo e tanta passione. Quella sana, quella vera, quella che rapisce e porta il bambino Luca Panichi a diventare un promettente ragazzo-ciclista fino a quel 18 luglio 1994, in salita verso San Martino al Cimino.  La corsa della vita La riabilitazione come punto di partenza. Cinque anni per risorgere e continuare a vivere. «La mia situazione era grave – aggiunge Luca – ma, grazie alle esperienze maturate nel corso di tante stagioni agonistiche, posso dire di aver recuperato molto di più rispetto a una persona sedentaria, a parità di condizione. L’atteggiamento mentale ha fatto la differenza. L’a-tleta non si sente mai arrivato. Vive sempre una condizione di “sospensione” che lo porta a voler migliorare, giorno dopo giorno, la sua prestazione. Questa condizione mi ha permesso di intercettare le migliori risorse umane che mi hanno condotto a seguire un percorso riabilitativo efficace. Tra queste risorse, il dottor Luca Papavero ha giocato un ruolo chiave: a seguito di un delicatissimo intervento chirurgico avvenuto in Germania, ho potuto stabilizzare la mia situazione neurologica scongiurando la perdita dell’abilità manuale».

Quattro mesi di convalescenza, e l’Amore che bussa alla porta. Luca risponde, e apre il suo cuore ferito all’incontro con una ragazza tedesca. «Un’esperienza fondamentale per il recupero dell’autostima. Sono tornato a sentirmi bene con me stesso. Questa ragazza oggi non fa più parte della mia vita, ma conservo un ricordo particolare del periodo passato in Germania. La storia si è conclusa perché avremmo dovuto rinunciare ad aspetti importanti delle nostre vite: lei al lavoro, nell’eventualità di un trasferimento in Italia e, nel mio caso, agli studi universitari presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, e al percorso riabilitativo».

Nel frattempo è l’intera comunità di Magione a promuovere varie attività volte alla raccolta di fondi per sostenere la famiglia e il giovane Luca. Anche il mondo del ciclismo si muove: l’ultima tappa della Tirreno-Adriatico, famosa corsa riservata ai professionisti, parte proprio da casa Panichi con le squadre e i loro atleti che donano quanto possono per aiutare il collega. «In questa occasione, in risposta ai giornalisti che titolarono “tragedia al Giro dell’Umbria”, dissi che la vera tragedia era stata la morte di Fabio Casartelli (ciclista italiano deceduto al Tour de France il 18 luglio 1995, lungo la discesa del Portet-D’Aspet, ndr), perché l’opportunità di vivere la sfida della vita altro non è se non la vera bellezza che ogni uomo è chiamato ad ammirare».   Papà Valter che se ne va nel ’99 dopo aver riprodotto in casa una vera palestra riabilitativa per aiutare il figlio, è una nuova occasione per non fermarsi di fronte al dolore. Luca si prende le proprie responsabilità, e va a lavorare presso l’ufficio amministrativo di un grande magazzino per pagarsi gli studi e acquisire indipendenza. «Ho atteso quattordici anni il risarcimento dell’incidente per via di una trafila giudiziaria che si deve ancora concludere, ma è stato un bene che la somma a me destinata non sia arrivata subito, perché così non ho avuto tempo per adagiarmi, e sono stato costretto a reagire. Mi sono laureato nel 2005 con 110 e lode. Poi è venuto il matrimonio, un master in consulenza e comunicazione politica, e le scalate in carrozzina».  Ogni ostacolo è un’opportunità «Il ciclismo mi ha sempre insegnato a vivere il limite come una rampa di lancio per raggiungere un nuovo traguardo. Quando sei coinvolto in una caduta, ti devi rialzare. Nello sport come nella vita. Quando non ottieni il risultato desiderato, lavori per ottenerlo. È questo meccanismo compensativo che sostiene la mia vita, in particolare dopo l’incidente. Grazie a tale prospettiva, non ho abbandonato la passione per questo sport, e così ho iniziato a percorrere le salite, che prima facevo in bicicletta, in compagnia della mia carrozzina che è sempre la stessa. È importante questo aspetto per una persona disabile. Cambiare carrozzina a seconda dell’attività svolta, significherebbe rimarcare quella differenza fisica che lo divide da una persona normodotata».   La svolta arriva il 27 maggio 2009 durante la 17ª tappa del Giro d’Italia: la Chieti-Blockhaus. David, fratello gemello di Luca, è invitato in televisione al programma «Processo alla Tappa» per diffondere la conoscenza dell’importanza della pratica del ciclismo per le persone diabetiche. Luca lo accompagna e decide di percorrere gli ultimi cinque chilometri della salita finale spingendo le ruote della sua carrozzina. Un gesto insolito che cattura l’attenzione della gente. Gli spettatori segnalano l’impresa ai conduttori Rai. A 100 metri dal traguardo, le telecamere indugiano sullo scalatore in carrozzina, e la folla applaude con entusiasmo. Il limite come punto di partenza per una nuova sfida: Luca decide così di scalare, ogni anno, un arrivo in salita del Giro d’Italia. Tonale nel 2010, Großglockner nel 2011, Stelvio nel 2012, Tre Cime di Lavaredo nel 2013, Zoncolan nel 2014, Colle delle Finestre e Sestriere nel 2015.

Quattro, cinque allenamenti la settimana nel dopo lavoro, il più delle volte la sera, per finire a notte inoltrata alle porte dell’alba. Su e giù per le colline. Il gesto sportivo che diventa un messaggio ecumenico, e non un atto di penitenza. «Le persone che mi osservano durante una scalata, i primi cinque minuti non applaudono. Mi guardano, non capiscono, sono perplesse. Vedono la carrozzina e, di conseguenza, l’handicap. Dicono a loro stesse: “Cosa sta succedendo? Questa persona è folle!”. Subito dopo, però, capiscono che il gesto è divertente ed è possibile, e che mi accompagna una positiva sofferenza da non confondere con il patimento. Le barriere vengono infrante. I limiti si spostano. Non è il risultato che conta, ma la credenza che si dà al gesto sportivo. Abbiamo tutti uno “Stelvio interiore” da scalare. Ciò che conta lungo la salita, qualsiasi essa sia, è l’atteggiamento con il quale affrontiamo ogni metro del percorso. È la persona che diventa protagonista di fronte alle difficoltà dell’esistenza. Ogni ostacolo, ogni imprevisto diventa così parte naturale della corsa più bella: quella della vita!».  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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